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Il processo di Karthoum

e l'esternalizzazione del controllo dei confini.
confini e frontiere
08
Mag

Il processo di Karthoum

In estrema sintesi e semplicità il processo di Karthoum è un tentativo di spingere ancora più a sud il controllo dei confini, è un’altra manifestazione dell’esternalizzazione dei controlli, rappresentata anche dall’accordo Turchia-Ue (marzo 2016) – che ha avuto principalmente lo scopo di bloccare la rotta balcanica e, quindi, un ovvio maggiore ricorso da parte dei migranti alla rotta del Mediterraneo centrale o il neo accordo (l’ennesimo) tra Libia e Italia (febbraio 2017) o ancora l’operazione militare Sophia, che ha un protocollo d’intesa per la formazione congiunta della guardia costiera libica.

Bene, chiuse le frontiere sopra di noi, davanti a noi il mare non si può recintare, quindi, continuano ad arrivare, sbarcano e qui restano. ∼ Milena Gabanelli

L’esternalizzazione affida a paesi terzi i compiti di:

  • contenere le partenze;
  • garantire la sicurezza;
  • facilitare i respingimenti e, quindi, le riammissioni nel Paese d’origine;
  • assicurare la libera circolazione dettata dalla Convenzione di Shengen.

Come?
Gli accordi vorrebbero sostenere lo sviluppo sostenibile nei Paesi d’origine e di transito; incitare alla collaborazione fattiva per combattere il traffico e la tratta di esseri umani; regolare i flussi migratori e là dov’è possibile prevenirli; intervenire sui fattori scatenanti dell’emigrazione; prevedere la creazione di centri di accoglienza nei paesi di transito che garantiscano il rispetto dei diritti umani.

Ciò che sfugge da questo ragionamento è la massiccia diffusione della corruzione, l’esistenza di feroci dittature e la presenza di oligarchie politiche ed economiche. L’Unione Europea, quindi, ha intrapreso una strada di collaborazione con delle dittature, rischiando di legittimarle, solo perché queste possono essere utili a gestire i flussi migratori ed gli interessi economici. È da qui che nascono le perplessità: come sarà possibile tutelare i diritti umani prendendo accordi con Stati che sono in conflitto, come la Somalia, o sottoposti a dittature, come quella presente in Eritrea? E ancora in che modo L’Unione Europea intende trasferire competenze a questi Paesi per regolare la migrazione? Attraverso politiche di repressione o di sviluppo? Con la creazione di blocchi di filo spinato e muri nei punti caldi dei confini? Con l’addestramento militare delle polizie di frontiera? O con l’incremento e il rafforzamento delle politiche sociali?

Nello specifico il processo di Karthoum è un accordo firmato a Roma il 28/11/2014 tra i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione Europea, dei Paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia e Gibuti) e di alcuni Paesi di transito (Sud Sudan, Sudan, Tunisia, Kenya ed Egitto).
Analizzando la situazione dell’Eritrea, nel gennaio 2016, l’Unione Europea, continuando il dialogo dettato dall’accordo di cui sopra, ha firmato un piano quinquennale di supporto al governo prevedendo un finanziamento di 200 milioni di euro di investimenti nell’energia, con lo scopo di “espandere il mercato del lavoro per i giovani” e “affrontare le cause della migrazione”. Fondi che, sostengono diversi attivisti in esilio, saranno controllati da un regime che diverrà ancora più pervasivo nei confronti della popolazione e andranno, anche, ad arricchire i trafficanti. I giovani, però, non fuggono dall’Eritrea per una questione economica – come racconta Mussie Zerai, prete ed attivista eritreo – infatti, prima del 1997, e quindi prima della guerra Etiopia/Eritrea, ognuno aveva ed esercitava la propria professione. “La crisi dell’Eritrea”, continua Zerai, “non è economica, ma dei diritti, che sono venuti a mancare”.
Ancora vi è in definizione un nuovo programma di controllo della frontiera sudanese per mezzo del quale L’Unione Europea dovrebbe far arrivare ingenti fondi al presidente Al Bashir, sulla cui testa vi è un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità emanato dal tribunale dell’Aia, per sigillare la frontiera con Eritrea e Libia. Ci sarebbe da tener presente che vige ora un trattamento che gli eritrei conoscono come “shoot to kill” (“spara e uccidi”), ovvero l’ordine di sparare contro chi tenta di attraversare il confine a piedi e anche che le centinaia di migranti rimpatriati con la forza dal Sudan, dalla Libia e dell’Italia sono stati subito incarcerati dal regime eritreo senza alcuna accusa formale o di alcuni si sono addirittura perse le tracce.

Analizzando alcune delle cause che stanno dietro alle migrazioni, dobbiamo per forza menzionare gli accordi di paternariato economico di libero commercio che l’Europa ha imposto all’Africa, ai Caraibi e al Pacifico (EPA) conclusi tra il 2015 e il 2016 dopo la resistenza durissima dei movimenti di indipendenza africani.
Cosa prevedono?

  • nessun paese africano può innalzare barriere doganali per difendere i propri prodotti;
  • il libero commercio viene tradotto con giustizia sociale;
  • l’UE può, invece, sussidiarie con decine di miliardi le grandi multinazionali agricole europee che riescono, quindi, in tal modo a vendere i loro prodotti sottocosto al mercato africano distruggendo le economie locali.

Facciamo un esempio sul Burundi prendendo i dati trasmessi dall’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, che ha stimato cosa sarebbe accaduto con l’entrata in vigore degli EPA.

Il consumatore in un anno risparmia +1.825.000$ comprando i prodotti europei a minor costo,
MA il Paese ha una diminuzione di -7.664.000$ a causa dell’annullamento dei dazi doganali sulle proprie materie prime indispensabili per la sopravvivenza e ha una diminuzione di ricavi, perché acquista dall’EU, di -13.943.000$ e, quindi, una perdita complessiva annuale di -19.782.000$.

L’Africa potrebbe essere autosufficiente se gli Stati esteri non continuassero a sottrarle delle importanti e fondamentali risorse per la sopravvivenza. Inoltre, l’UE compete oggigiorno con la Cina sul mercato africano e, allora, pur sapendo di stringere accordi con regimi dittatoriali, sostiene questi paesi (Libia, Turchia, Eritrea, Sudan, Nigeria, Gambia, ecc) perché i dittatori fanno gli interessi delle multinazionali, non ostacolano gli interventi che impoveriscono il loro Paese e lo rendono dipendete dall’estero. È tutta una questione di interessi geopolitici, strategico militari.

Siamo di fronte ad uno stravolgimento dell’approccio al fenomeno migratorio. È la stessa Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, che recentemente, ha più volte sottolineato come l’immigrazione non possa più essere trattata pensando solo alle frontiere europee ma che ci sia bisogno di una collaborazione con i paesi di transito e di origine. [“Processo di Kharthoum, sapete cos’è?” – Francesca Materozzi, Corriere delle migrazioni]

Si parla di invasione, ma in Europa è arrivato solo lo 0,2% dei migranti del mondo e se solo l’Europa aprisse le frontiere e gestisse il flusso fra tutti e 28 i suoi Stati non vi sarebbe una presenza difficilmente gestibile nei Paesi di primo arrivo come Italia e Grecia.


Sitografia:

 

 

 

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